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I DINTORNI DEL QUESITO REFERENDARIO SULLA CANNABIS: ALCUNE CONSIDERAZIONI COSTITUZIONALI 

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Di Andrea Pugiotto, Professore Ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Ferrara
 
0.Intarsi

 

Il 15 febbraio prossimo, il presidente Gian Domenico Caiazza e il collega Andrea Pertici unitamente agli avvocati Giulia Crivellini, Letizia Lo Giudice e Filomena Gallo, avranno l’onore e l’onere di difendere le buone ragioni del Comitato promotore davanti alla Corte costituzionale. Sarà l’appuntamento decisivo per la sorte del referendum di cui oggi discutiamo. Se dichiarato ammissibile, verremo chiamati a votarlo nella prossima primavera. Il che – come ho avuto modo di scrivere ieri su Il Riformista– è una delle buone notizie collegate all’esito ordinato delle ultime elezioni presidenziali. Lo scioglimento anticipato delle Camere trascinato dall’irrisolvibile crisi del governo Draghi (automatica, in caso di una sua elezione al Quirinale), avrebbe comportato lo slittamento del voto abrogativo popolare di un anno, al 2023. Così non è stato. Ed è plausibile ritenere che, da qui alla consultazione referendaria (da convocarsi in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno), non interverrà alcun decreto a disporre l’interruzione prematura della XVIII legislatura, firmato da un Capo dello Stato appena rieletto, e controfirmato da un Presidente del Consiglio deliberatamente trattenuto a Palazzo Chigi per proseguire l’azione di governo. La relazione introduttiva di Andrea Pertici ha avuto il merito di squadernare tutti gli ostacoli che il quesito referendario dovrà superare a Corte. Sul tronco delle cose già dette, vorrei operare come un artigiano chiamato a inciderne il legno. Tre sono gli intarsi che tenterò di realizzare, nei venti minuti complessivi di cui dispongo.

 

 

1. Il limite degli obblighi internazionali

 

Ecco il primo intarsio. L’ostacolo più alto che il quesito dovrà superare è il divieto di abrogazione referendaria di norme imposte da obblighi internazionali assunti dallo Stato italiano. È la pietra d’inciampo che ha fatto già cadere a Palazzo della Consulta due referendum nel 1981 (sent. n. 30) e nel 1997 (sent. n. 27), entrambi miranti ad escludere i derivati della canapa indiana dalle droghe proibite.Mi (e vi) domando: davvero si tratta di un criterio imposto dalla Costituzione? O non siamo, invece, davanti a un limite elevato (artificialmente) dalla Corte costituzionale? La risposta è squisitamente tecnica e richiede un supplemento d’attenzione. Provo a spiegarmi. La giurisprudenza della Consulta fascia in un generalizzato divieto di abrogazione popolare norme comunque collegate all’ambito di operatività di trattati internazionali. La ratio comune è indicata nella responsabilità dello Stato verso gli altri stati-parte, conseguente all’abrogazione di norme apprestate per l’attuazione degli impegni assunti: «responsabilità che la Costituzione ha voluto riservare alla valutazione politica del Parlamento, sottraendo le norme in questione alla consultazione popolare» (sent. n. 30/1981). In altre parole, sarebbe una ragione sostanziale a giustificare il divieto. Così ragionando, la Corte ha agevolmente e massimamente dilatato quanto previsto all’art. 75, 2° comma, Cost., che sottrae a referendum esclusivamente le leggi di «autorizzazione a ratificare trattati internazionali». Se, infatti, è in gioco la responsabilità internazionale dello Stato, il divieto dovrà valere anche per leggi contenenti l’ordine di esecuzione di trattati (sentt. nn. 16/1978, 30/1981), ma anche leggi produttive di effetti strettamente collegati all’ambito di operatività dei trattati (sentt. nn. 31/1981, 28/1993, 27/1997), fino a comprendere – in potenza – «qualunque norma, in qualunque modo collegata con un qualsiasi impegno internazionalmente assunto» (L. Carlassare, Adattamento ordinario e referendum abrogativo,in Giur. Cost., 1981, I, 465; l’argomento apagogico va, tuttavia, ridimensionato: cfr. la precisazione contenuta in sent. n. 63/1990, §8 cons. dir). Alla base di questa strategia argomentativa c’è un vizio radicale. Il divieto di cui all’art. 75, 2° comma, Cost., infatti, risponde ad una ratio diversa da quella indicata dalla Consulta. Una ratio non sostanziale ma formale,dovuta alla specifica natura giuridica delle leggi di autorizzazione alla ratifica. Tali leggi, una volta autorizzato lo scambio o il deposito dell’atto necessario a perfezionare il trattato, esauriscono istantaneamente i propri effetti e la propria funzione. Ecco perché l’art. 75, 2° comma, Cost. le esclude dal referendum: «trattandosi di leggi che non dispongono per l’avvenire, l’abrogazione nei loro confronti è logicamente impossibile» (L. Carlassare, op. cit., 468). Tecnicamente, esse appartengono alla categoria delle leggi meramente formali: approvandole, le Camere non innovano l’ordinamento; semmai, esercitano per via legislativa una forma di controllo politico sul Governo. Tutto ciò, invece, non si può dire per quelle ad esse materialmente collegate (qual è il T.U. n. 309 del 1990): si tratta, infatti, di leggi vere e proprie che, disponendo per l’avvenire, presentano un contenuto normativo suscettibile di abrogazione. Includerle nel divieto di natura formale incapsulato nell’art. 75, 2° comma, Cost., dunque, è insensato.

 

2. Due suggerimenti al Comitato promotore

 

Sia chiaro. Non sono uno sprovveduto, e dunque so bene che la giurisprudenza referendaria qui criticata è ormai così radicata da non essere più sradicabile. Si tratta, peraltro, di una felix culpa: se, diversamente da quanto accaduto in Gran Bretagna, non è possibile una Italexit per via referendaria, lo si deve proprio a questo (sviato e sviante) orientamento giurisprudenziale. Ciò detto, si può però pretendere dalla Corte costituzionale almeno un ridimensionamento del suo effetto interdittivo. Ma in che modo? Il primo è quello di capitalizzare la precisazione presente in alcune sue pronunce, secondo cui sottratte a referendum sarebbero le sole norme «per le quali non vi sia margine di discrezionalità quanto alla loro esistenza e al loro contenuto», non anche quelle che lo Stato può emanare «operando delle scelte per dare esecuzione nei modi considerati più idonei agli impegni assunti» (così, per la prima volta, la sent. n. 30/1981; il distinguo trova conferma nella sent. n. 27/1997 e applicazione – a favore dell’ammissibilità della richiesta referendaria – nella sent. n. 28/1993). L’elasticità nelle scelte circa il se e il come dare attuazione alle convenzioni internazionali in materia di stupefacenti (con riferimento al divieto di coltivazione e al ricorso a pene detentive) è proprio ciò che la memoria del Comitato promotore argomenta persuasivamente. È la strategia già rivelatasi vincente nel giudizio di ammissibilità del referendum radicale del 1993 (sent. n. 28), poi approvato nelle urne, che determinò la depenalizzazione della detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti. È certamente la strategia più idonea ad aggirare un divieto altrimenti insuperabile. Ad essa, suggerirei di aggiungerne un’altra. L’orientamento giurisprudenziale qui criticato precede cronologicamente la modifica (ex legge cost. n. 3 del 2001) apportata all’art. 117, 1° comma, Cost., che ha elevato il rispetto degli obblighi internazionali pattizi a vincolo inderogabile per la funzione legislativa. Oggi, una fonte primaria che disponesse contra le norme di un trattato sottoscritto dall’Italia è illegittima e, perciò, impugnabile davanti alla Consulta. Questa sopravvenuta revisione costituzionale, a mio avviso, ha ripercussioni anche nel diverso giudizio di ammissibilità del referendum. Bocciare un quesito abrogativo popolare perché violerebbe un obbligo internazionale, infatti, altro non è che esprimere un anticipato giudizio d’incostituzionalità sul suo effetto normativo. Ma – ecco il punto –è esattamente ciò che la Corte costituzionale ha sempre escluso di poter fare.In merito, la sua giurisprudenza è categorica: dalla prima sentenza referendaria (la n. 10/1972) all’ultima in ordine di tempo (la n. 10/2020), passando per almeno altre quindici pronunce egualmente orientate (cfr. le sentt. nn. 25/1975; 16/1978; 24 e 26/1981; 26/1987; 63/1990; 25/2004; 45,46, 47 e 48/2005; 15 e 16/2008; 24/2011; 17/2016). Il perché è presto detto. Smettendo i panni del giudice di ammissibilità del referendum per assumere l’abito del giudice di costituzionalità del suo esito normativo, la Corte finirebbe per esercitare un sindacato preventivo e astratto(non contemplato dall’ordinamento) su una conseguenza normativa del tutto eventuale, subordinata com’è a molteplici condizioni: l’ammissibilità del quesito, l’inerzia del legislatore, il raggiungimento del quorum strutturale di validità della consultazione referendaria, la prevalenza dei sui no all’abrogazione, la circostanza che il Capo dello Stato non sospenda la proclamazione dell’esito referendario al fine di consentire un intervento legislativo atto a prevenirne l’effetto abrogativo (come consente l’art. 37, comma 3, legge n. 352 del 1970). Su elementi così labili e incerti «risulta chiaro come non possa negarsi un mezzo di democrazia diretta, quale la consultazione referendaria» (sent. n. 63/1990).

 

3. Uno “stupefacente” laboratorio costituzionale

 

Ecco il mio secondo intarsio. Negli ultimi anni, il testo unico n. 309 del 1990 in materia di sostanze stupefacenti si è rivelato terreno d’elezione per un vero e proprio laboratorio costituzionale, dove sperimentare nuove vie per un superamento del suo apparato sanzionatorio. Faccio solo tre esempi, tratti da un catalogo più ricco. Il primo è la sent. n. 32/2014 (relatrice Cartabia) che dichiara l’incostituzionalità di alcune modifiche introdotte al testo unico nel 2006. Do you remember? Si trattava di modifiche poi riassunte nella c.d. legge Fini-Giovanardi, ma originariamente introdotte in sede di conversione di un decreto legge concernente le Olimpiadi invernali di Torino, mediante la tecnica del maxiemendamento blindato con l’apposizione della questione di fiducia. Per accogliere la quaestio, la Consulta non esitò a ricorrere a un criterio di giudizio allo stato nascente: la violazione del procedimento previsto dall’art. 77 Cost. in ragione della estraneità degli emendamenti rispetto al contenuto del decreto legge. Un vizio in procedendo che fino ad allora la Consulta aveva accertato in un solo precedente (cfr. sent. n. 22/2012). Il secondo esempio in catalogo è la sent. n. 40/2019 (rel. Cartabia) che dichiara l’incostituzionalità dell’art. 73, 1° comma, del testo unico, nella parte in cui sanziona in misura irragionevole il reato per fatti di non lieve entità aventi ad oggetto droghe pesanti, cambiandone la pena minima: da otto anni di reclusione a sei. Per accogliere la quaestio, la Consulta ha fatto un uso ardito di una tecnica decisoria pressoché inedita: il giudizio di proporzionalità intrinseca della cornice edittale censurata, sostituita con una diversa sanzione rinvenibile nell’ordinamento, conforme a Costituzione ma da questa non imposta. In gergo, una sentenza manipolativa priva di “rima obbligata”. Uno dei primi casi di radicale mutamento nella «matematica del castigo» (Consulich) fino ad allora seguita nel sindacato di costituzionalità sulla misura della pena. La recente campagna referendaria per la “cannabis legale” rappresenta l’ultimo esperimento riuscito di questo vulcanico laboratorio costituzionale. Mai prima d’ora, infatti, si era avuta una raccolta firme pressoché integralmente online, capace di raggiungere le 500.000 necessarie in soli sei giorni (se ne conteranno, alla fine, 612.632). E sono proprio le sottoscrizioni digitali ad aver fatto la differenza: delle 507.104 convalidate dall’Ufficio centrale, infatti, si contano in 504.281 (cfr. ord. 11 gennaio 2022). Determinanti, quindi, per superare la soglia di validità della richiesta referendaria popolare. I tre interventi abrogativi inclusi nel quesito presentano un comune denominatore: mitigare l’attuale assetto repressivo in materia, puntando in particolare alla “decarcerizzazione” per la coltivazione di piante proibite abrogandone la pena della reclusione. Se ne avesse uno, il motto di questo referendum suonerebbe così: «niente carcere per la cannabis e nessuna sanzione penale per chi la coltiva per uso personale» (il copyright è di Grazia Zuffa). Ebbene, questo “stupefacente” laboratorio costituzionale (stupefacente per materia, esperimenti, risultati) ci restituisce il senso e la misura di quanto particolarmente afflittivo sia l’apparato sanzionatorio del testo unico n. 309 del 1990. Così esageratamente severo da costringere a innovative acrobazie giuridico-costituzionali pur di arrivare a mitigarne gli effetti. Effetti che – come sappiamo – sono innanzitutto detentivi: il 30,8% degli ingressi in carcere è per violazione dell’art. 73 del testo unico; al di là del reato commesso, un detenuto su quattro è tossicodipendente. Quel cronico “superlativo di un superlativo” che chiamiamo sovraffollamento carcerario, in larga parte, nasce da qui. Sul piano della politica del diritto, dunque, l’azione della Consulta e l’iniziativa del Comitato promotore sono assimilabili: segnalano, infatti, al legislatore la necessità di una riforma della vigente disciplina, a partire dall’arretramento della sua soglia penale. 

  

4. Gemelli diversi: i referendum in tema di cannabis e di eutanasia 

 

Terzo ed ultimo intarsio. A me pare che i due referendum sulla cannabis e sull’eutanasia siano gemelli diversi, e non solo perché ambedue promossi – in primis – dall’Associazione Luca Coscioni. Altre e ancor più rilevanti, infatti, sono le intersezioni tra le due richieste referendarie. Entrambe si riconoscono nel principio secondo il quale le scelte individuali prive di offensività verso terzi non devono essere punite, semmai governate (culturalmente e socialmente) e normate in modo costituzionalmente orientato. Entrambe muovono da un concetto di salute come diritto individuale che – fino a quando non entri in conflitto con la sua dimensione di «interesse della collettività» (art. 32, 1° comma, Cost.) – trova la sua bussola nel principio di autodeterminazione, non tollerando funzionalizzazioni di sorta. Entrambi i referendum, infine, si muovono (non in alternativa, bensì) in feconda concorrenza con il Parlamento, il cui intervento legislativo sarà comunque necessario per arrivare ad una compiuta riforma normativa. Riforma che nel frattempo i due quesiti iniziano a sagomare, contribuendo così a ridurre la distanza tra norma e fatto sociale. Personalmente, mi riconosco in questo comune sentire schiettamente liberale, contrario ad ogni paternalismo giuridico come pure al suo ancillare maglio penale. Per questo ho firmato entrambe le richieste referendarie. E per questo auguro a entrambe il successo che meritano, Corte costituzionale permettendo.

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