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Il giudizio di Ammissibilità sul #ReferendumCannabis – Intervento di Andrea Pertici

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Di Andrea Pertici, professore ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Pisa e autore del manuale di Diritto Costituzionale (Manuale di diritto costituzionale italiano ed europeo, a cura di R. Romboli, III ediz., Giappichelli, Torino 2019)  

Vorrei fare prima due considerazioni di carattere generale su questo referendum, per venire quindi al giudizio di ammissibilità. Il referendum ha avuto anzitutto una grande notorietà proprio per questo intervento reso possibile attraverso l’emendamento di Riccardo Magi, che ha sbloccato quello che è stato a lungo un ostacolo alla raccolta delle sottoscrizioni.

Chi di noi ha raccolto le sottoscrizioni popolari sa bene che quello della legge 352 del 1970 è stato uno strumento sostanzialmente ostativo alla effettiva attuazione dell’articolo 75. Rispetto a chi sostiene che adesso con la possibilità di raccogliere le sottoscrizioni online ci sarà l’invasione dei referendum – che invece non abbiamo visto – e che quindi vi sarà una torsione dell’istituto, dico il contrario, e cioè che la possibilità delle sottoscrizioni online restituisce al referendum il suo ruolo: la possibilità di essere effettivamente uno strumento coadiuvante degli altri strumenti democratici, attraverso una interazione tra la democrazia diretta e la democrazia rappresentativa che fu pensata dal nostro Costituente, peraltro già attraverso una serie di interventi restrittivi rispetto alla proposta Mortati che certamente era più ampia rispetto alle possibilità di partecipazione. 

Di certo il referendum rappresenta anche l’occasione per arrivare a quella rivitalizzazione del circuito democratico alla quale faceva riferimento il Presidente Mattarella, e che ho ritrovato anche in una recente intervista di Riccardo Magi. In una situazione in cui c’è disaffezione degli elettori rispetto alla partecipazione democratica, riportarli a discutere e a decidere circa questioni concrete può essere un elemento di rivitalizzazione di questa partecipazione.

 Ecco, venendo alla questione sottoposta alla nostra attenzione oggi più nello specifico, si tratta di un quesito referendario che è già stato sommariamente spiegato da Franco Corleone, e che prevede tre interventi: l’abrogazione del verbo “coltiva”  dal comma 1 dell’articolo 73 del Testo unico degli stupefacenti; l’abrogazione delle pene detentive da 2 a 6 anni dal comma 4 dello stesso articolo 73 per il caso in cui le condotte ritenute penalmente rilevanti ai sensi del comma 1 riguardino le sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle Tabelle seconda e quarta; l’abrogazione di una delle sanzioni amministrative previste dall’articolo 75, ed in particolare quella che prevede la sospensione della patente, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli, oltre che del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori.

Questi sono tre interventi diversi di cui bisogna subito sottolineare la matrice razionalmente unitaria, che deriva dalla intenzione dei promotori.

L’intenzione dei promotori è quella di attenuare la portata sanzionatoria oggi prevista dal Testo unico in materia di sostanze stupefacenti. Questo ci consente di risolvere alcuni problemi che la Corte naturalmente esaminerà, perché appunto il giudizio della Corte è un giudizio di ammissibilità, che quindi non può attenere al merito della legge, e soprattutto non dovrebbe attenere neppure al merito della normativa di risulta.

Cosa, quest’ultima, sulla quale, esaminando la lunga giurisprudenza in materia ammissibilità del referendum, abbiamo riscontri variabili, nel senso che talvolta la Corte è riuscita a rimanere nell’alveo di competenza che in questo caso è chiamata ad esercitare, dall’altra invece ha esaminato anche la normativa di risulta. Ciò non deve accadere perché non è quella la sede in cui la Corte si occupa del contenuto della legge.

Il giudizio di ammissibilità dovrebbe, secondo l’art. 75 comma 2 della Costituzione, limitarsi ad un vaglio circa il fatto che non si tratti di una legge tributaria, di bilancio, di amnistia o indulto e di ratifica dei Trattati internazionali. Notoriamente, a seguito della Sentenza 16 del 1978 relativa a una seria di quesiti proposti dal Partito Radicale, la Corte ha ampliato il suo scrutinio, e lo ha ampliato anzitutto procedendo ad una interpretazione logico-sistematica delle quattro categorie di legge che sono indicate: tributarie, di bilancio, di amnistia e indulto e di ratifica dei Trattati internazionali, intervenendo poi su altri aspetti, in particolare sulla modalità di formulazione del quesito, il quale deve essere chiaro e semplice, quindi omogeneo, e cioè non deve contenere disposizioni contrarie l’una all’altra, e coerente, quindi deve tenere insieme tutte disposizioni che sono collegate tra loro.

Ora, se questo ampliamento di cui alla sentenza 16 del 1978 ha avuto il significato di valorizzare per alcuni versi la libertà di scelta degli elettori, è lo stesso redattore, Livio Paladin, che alcuni anni dopo, in un seminario della Corte, sostenne come si fosse andati, a partire da questa sua sentenza, troppo oltre rispetto agli interventi della Corte relativi all’ammissibilità dei referendum, con la conseguenza di restringere la possibilità dei cittadini di esprimersi su questioni di loro interesse.

Per quanto riguarda la materia in oggetto, vi è stato un referendum che ha mostrato l’interesse dei cittadini, essendovi stato il 77% dei partecipanti e il 55% dei favorevoli, nel 1993, e direi che anche le sottoscrizioni  raccolte in occasione di questo quesito mostrino come certamente questo tema non sia marginale dal punto di vista dell’interesse dei cittadini.

Ora, sulla base di questo, dicevo che proprio l’intenzione dei promotori è molto importante, perché è da questa che la Corte può constatare se il quesito proposto raggiunge questi obiettivi e risponde agli stessi possedendo quella matrice razionalmente unitaria che consente di arrivare alla declaratoria di ammissibilità. In questo senso occorre ricordare che già nella sentenza 28 del 1993 la Corte ha chiarito che anche la presenza di disposizioni diverse l’una dall’altra sottoposte ad abrogazione referendaria possano comunque integrare la omogeneità della proposta,  perché addirittura in quella sentenza, come in realtà in altre attinenti ad altre questioni, la Corte rileva che la richiesta non appare né contraddittoria né assolutamente eterogenea; come a dire che si riconosce in questo caso come la valutazione di omogeneità debba essere una valutazione preliminare tale da non costringere l’elettore ad una scelta per l’abrogazione di questioni totalmente diverse l’una dall’altra, o per la loro non abrogazione.

La prima applicazione del criterio di omogeneità è quella relativa a 97 articoli del Codice Penale che prevedevano reati assai diversi l’uno dall’altro, in cui la matrice razionalmente unitaria forse era eccessivamente larga per poter parlare di omogeneità. In questo caso, come dicevo, e come è stato dichiarato dai promotori, il che ha naturalmente un rilievo, ancorché anzitutto l’intenzione dei promotori debba risultare dal testo proposto, l’intenzione dei promotori è quella di attenuare la portata sanzionatoria, e mi pare che rispetto a questo intento il quesito proposto risponda all’obiettivo.

Infatti, l’abrogazione del termine: “coltiva”, mantenendo però: “produce”, “estrae”, “fabbrica”, “vende, “raffina”, “offre” “mette in vendita”, “cede”, “distribuisce”, “commercia”, “trasporta”, “porta ad altri”,  “invia”, “passa”, “spedisce in transito”, “consegna”, “per qualunque scopo”, credo che non si siano dimenticati proprio niente, consente di eliminare soltanto quella parte che si ritiene faccia riferimento ad una coltivazione di tipo personale, una coltivazione che non presuppone una produzione, una fabbricazione, un commercio ecc., ma semplicemente il personale uso della Cannabis.

A questo primo intervento si collegano gli altri due. Il secondo, che è tra l’altro un intervento su una norma sulla quale vi è stata una reviviscenza a seguito di una sentenza della Corte costituzionale del 2014, elimina neppure le sanzioni penali, quindi non si può neanche parlare di vera e propria depenalizzazione, ma elimina le sanzioni penali detentive. In questo senso vengono in considerazione anche le osservazioni apportate da Franco Corleone, che tra l’altro credo incrocino la sensibilità, tra gli altri, in particolare di Andrea Pugiotto, che pure interverrà in questa occasione, che è quella relativa al sovraffollamento carcerario.

Quindi, senza eliminare tutte le sanzioni penali – perché appunto rimane la multa, una multa anche molto significativa – elimina invece le sanzioni detentive.  Il terzo elemento, strettamente connesso, è quello relativo alla sospensione della patente, proprio perché tale sanzione di carattere amministrativo è quella più invasiva, che rischia anche di andare nel senso di aumentare la marginalità che talvolta appunto viene connessa all’uso di queste sostanze. Quindi, da questo punto di vista, possiamo osservare come la concatenazione dei tre interventi sussista proprio rispetto alla attenuazione della portata sanzionatoria.

Il quesito risponde alle intenzioni dei promotori e, in virtù di questo, possiamo considerare che risponda anche ad una matrice razionalmente unitaria, e quindi sia omogeneo. Un’attenzione deve essere svolta rispetto alla coerenza tra l’eliminazione del verbo “coltiva” dall’articolo 73 e il mantenimento invece della rilevanza della coltivazione all’articolo 26 del Testo unico. Proprio in questo caso dovrà evidenziarsi come vi sia una diversa portata del verbo “coltivare” nei due contesti normativi.

Naturalmente la stessa parola può assumere diverso valore in due diversi contesti normativi: nel contesto normativo dell’articolo 26 ha una portata generale, mentre qui, proprio per la sequenza di verbi che sono indicati nel primo comma dell’articolo 73, è chiaro che esso indica un particolare tipo di coltivazione, e che la sua eliminazione non incide a sulla rilevanza penale della coltivazione in generale volta alla produzione, fabbricazione, estrazione, raffinazione, commercio, etc. Chiarito l’aspetto relativo agli obiettivi e alla formulazione del quesito, rimane l’altro elemento sul quale sono inciampati due dei tre quesiti in materia di stupefacenti presentati negli anni passati, e che hanno avuto risposta con le sentenze 30/1981, 28/1993, 27/1997: la prima e la terza di inammissibilità e la seconda di ammissibilità.

Nei due casi in cui è stata dichiarata la inammissibilità la decisione si è basata sulla necessità di rispettare Trattati internazionali. Noi sappiamo che, secondo la giurisprudenza costituzionale, il limite delle leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali coinvolge anche – questo ci dice la Corte nella stessa sentenza 16/1978 – le disposizioni produttive, gli effetti collegati in modo così stretto all’ambito di operatività delle norme dei Trattati internazionali che la loro preclusione debba intendersi sottintesa.

Sostanzialmente, come dirà anche in sentenze successive, se la norma interna è vincolata dalla norma internazionale, la sua abrogazione è esclusa. Come la sentenza 28 del 1993 ci mostra, però, non tutta la materia degli stupefacenti è regolata a livello internazionale secondo disposizioni che non lasciano alcun margine di attuazione, e rispetto al quesito che ci riguarda, per il tipo di intervento che viene fatto, in cui non si elimina del tutto neppure la sanzione penale, come abbiamo detto, anche rispetto alla Convenzione di Vienna, che su questo è piuttosto restrittiva (eppure sono Convenzioni che devono anche tenere conto di una successiva evoluzione, sia del sistema penale sia delle posizioni di organismi internazionali), va evidenziato che il quesito proposto, appunto, non elimina neppure la sanzione penale.

Forse non sarebbe quindi neppure il caso di parlare di “depenalizzazione”, ma solo di “attenuazione della portata sanzionatoria”. Tra l’altro c’è un dibattito più ampio che credo meriti di essere coltivato anche dal legislatore proprio sulle pene alternative, perché la pena detentiva nella maggior parte dei casi risulta anacronistica.

Peraltro, il Parlamento avrebbe pure il compito, che sta per scadere, di intervenire sull’ergastolo ostativo, cosa che mi pare non sia proprio prossima a venire. Questo a maggior ragione vale anche per l’articolo 75, quindi per sanzioni amministrative che pure sono previste da norme internazionali, che però non ci dicono quali debbano essere. Quindi rientra certamente nella discrezionalità dello Stato prevedere sanzioni amministrative, tra le quali può però non esserci la sospensione della patente. Anche da questo punto di vista è da ritenere che non vi siano limiti evidenti all’ammissibilità.

Dico “limiti evidenti” non per indebolire la forza delle nostre argomentazioni, ma perché occorre ricordare, e certamente non occorrerà ricordarlo alla Corte che lo ha molto ben presente, che l’ammissibilità è la regola e la inammissibilità l’eccezione. Quindi non bisogna andare necessariamente a costruire una inammissibilità, perché basta che non si vada oltre questi limiti.

La Corte dovrebbe ammettere salvo, diciamo, eccezioni, e queste certamente ci auguriamo che siano le conclusioni che anche in questo caso si possano raggiungere. 

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